di Claudio Lucia
Riportiamo la testimonianza di Claudio Lucia, un giovane italiano in Inghilterra alla ricerca di lavoro, il quale racconta a Frontiere News la sua esperienza di questi giorni nella periferia londinese, nel clima apocalittico e surreale dei “riots” della capitale britannica: "Ieri è stato un pomeriggio solitario e non avendo nulla da fare mi sono recato in centro per scattare qualche foto (le prime, dopo tre settimane passate a cercare un lavoro). Afferro un Evening Standard – uno tra i più importanti e diffusi quotidiani gratuiti che vengono distribuiti nelle metro londinesi. Per strada chiunque ne ha una copia in mano.
Salgo sul bus per tornarmene a casa, riesco a prendere posto e inizio a leggere il giornale. Apprendo che la polizia londinese sta dando la caccia a centinaia di teenagers che negli ultimi due giorni hanno seminato il panico in alcuni quartieri di Londra (Tottenham, Brixton, Islington, Enfield), infrangendo vetrine di negozi con i mattoni dei muretti che demoliscono a pedate, saccheggiando attività commerciali, incendiando automobili e autobus. Un giovane di 29 anni è stato ucciso dalla polizia durante gli scontri perché avrebbe nascosto una pistola nel calzino. È ormai da tre giorni che i saccheggi e gli scontri continuano, e la polizia ha deciso di prendere misure molto serie per lo scontro previsto per questa sera.
Il signore accanto a me sta leggendo lo stesso articolo. Ad ogni fermata del bus si volta di scatto per vedere chi sale. Penso: “Teoria dell’ago ipodermico”, e sorrido. Scendo dal bus e ne attendo un altro che dovrebbe riportarmi a casa.
Sono in New Cross; del bus, nemmeno l’ombra. Gruppi di teenagers, tutti con felpe e i cappucci alzati, appaiono dall’altra parte della strada. Comincio a credere che anch’io mi stia facendo influenzare un po’ troppo da ciò che ho letto poco prima. Nel cielo ronzano due elicotteri e iniziano a stridere le sirene. Ma il bus non appare e continuano ad arrivare altri ragazzi, sono appostati ad ogni incrocio della strada principale. Un signore mi chiede del bus, ma non gli so dare informazioni; lui mi fa un cenno verso quei ragazzi, preoccupato. “Ecco un altro che ha letto l’Evening Standard!”, penso.
Con inconsueto ritardo arriva il bus (siamo pur sempre in Inghilterra!). Salgo e prendo posto; i passeggeri continuano a mormorare tra loro. “Ma hanno tutti letto l’Evening Standard!”, constato incredulo. Poi qualcuno comincia a parlare ad alta voce: a Peckham hanno distrutto negozi; un ragazzo confessa di essersela data a gambe mentre alcuni teppisti gli gridavano: “Fuck your mother”.
Improvvisamente il bus si ferma. Camionette degli antisommossa e ambulanze, che già da un po’ vedevo passare dal finestrino, ci sorpassano a tutta velocità sulla strada, alimentando il clima di tensione e i pettegolezzi tra i passeggeri del bus.
A Lewisham Centre è tutto chiuso, e non per l’orario: sei camionette della polizia impediscono a chiunque di attraversare il tratto di strada davanti al centro commerciale. Ci obbligano a scendere dal bus. Sono ad un’ora di autobus da casa mia! Lancio imprecazioni al cielo. Il cielo ricambia lanciandomi addosso cinque minuti di pioggia. “Dovrei tornare a casa…” mi lamento con uno dei poliziotti, mentre una parte di me vorrebbe continuare a restare lì, per vedere cosa succede. Lui mi dice che devo girare l’angolo e prendere la parallela, ma non si vede neppure un bus: un motivo in più per restare a guardare!
Dalla parte in cui mi trovo non vedo nulla di strano se non il blocco della polizia e qualche gruppo di ragazzi che da lontano gli imprecano contro. Ci sono anche mattoni sgretolati per terra. Eppure non accade nulla. Continuano a giungere poliziotti, si preparano per la notte. Penso anch’io alla notte e alla casa che è parecchio lontana, ho solo una t-shirt, fa un freddo cane; mi metto in cammino.
Col pretesto di chiedere informazioni sulla direzione da seguire verso casa mia, fermo qualche passante per chiedere cosa stia accadendo: apprendo così che verso le 16, gruppi di ragazzi tra i 13 e i 16 anni hanno cominciato a frantumare le vetrine di supermarket e negozi per poi saccheggiarli. Il centro commerciale è circondato dalla polizia, ma mi viene detto che si trovano parecchi negozi depredati nei paraggi. Ho (fortuitamente) la fotocamera: vado!
Comincio a vedere un po’ di disordine intorno a me: rifiuti sparsi per strada, plastica squagliata e ancora calda nei cestini. Piccoli gruppi di gente si concentrano su alcuni punti della strada vicino a qualche vetrina; mi avvicino. Ovunque, frammenti di vetro sparsi per terra. I proprietari dei negozi stanno già cercando di pulire. Si tratta di attività commerciali molto modeste: piccoli ristoranti take-away, off-licences, barbieri. Il giornale parlava di gruppi anarchici e di associazioni criminali: per quello che hanno visto i miei occhi, si tratta solo di gangs di tredicenni che di politica sanno ben poco.
Innegabile, però, è che conoscano la miseria, la disoccupazione, l’emarginazione, la malavita che nelle vie di Londra – non quella della City, ma quella dell’immensa periferia che si estende dalle zona da 2 alla 6 – regnano indisturbate; di certo, i pochi centri commerciali costruiti per tentare di abbellire lo squallore delle outskirts londinesi non riescono a distogliere l’attenzione di queste persone dalla propria condizione di miseria.
Innegabile la stupidità di tale violenza, di cui pagano le spese le famiglie di immigrati asiatici che vedono distrutte le loro attività commerciali aperte 24 ore su 24 per sbarcare il lunario. Tuttavia mi viene sottolineata, dalle persone più riflessive, la condizione di disperazione di tanti giovani precari e disoccupati senza futuro, che scaricano le loro frustrazioni sulle vetrine dei negozi.
Mi viene detto che a Catford la situazione è anche peggiore, con automobili date alle fiamme. Decido di recarmi lì, nonostante la località disti 45 minuti a piedi. Uno strano individuo si unisce a me. Mi mostra il cappuccio della sua felpa e mi dice che lui ha combattuto contro la polizia. E’ completamente esaltato, un tipico prodotto della periferia londinese: disoccupato, senza istruzione, cresciuto a sandwiches e Stelle Artois. Dopo una decina di minuti fa retromarcia, mentre io continuo.
Giungo nei pressi di Catford: lo capisco dai rifiuti sparsi per strada. In lontananza sento delle sirene e vedo un altro blocco della polizia. Non si passa neanche qui. Mi giunge alle orecchie la notizia di un Blockbuster saccheggiato. Più avanti un bancomat manomesso. Scatto foto con parsimonia, non essendo al corrente delle reali intenzioni dei tanti ragazzini che continuano a girare per le strade incuranti dei posti di blocco della polizia.
Ne ho abbastanza (anche le mie gambe: sono veramente lontano da casa, molto più di prima), e decido di tornare. Non conosco queste strade. Le conoscono, invece, benissimo tutti gli adolescenti, poco più che tredicenni, che incontro per le strade. La maggior parte di loro sono di colore, i più emarginati, i più poveri. Chiedo a due ragazze la strada per Eltham. Anche loro si dirigono lì: benissimo!
Una delle due vuole fermarsi a mangiare qualcosa, ma i locali hanno tutti le saracinesche abbassate. Ne troviamo uno con la saracinesca abbassata a metà, ma i gestori non vogliono venderci nulla. Dentro vi sono tre musulmani che dicono di essere lì per proteggere il negozio, assicurano di non essere preoccupati. Il più anziano poi aggiunge: “I bianchi sono bianchi, ma i negri sono scimmie!” Ed ecco che mi si mette in luce un altro dei problemi che si cela nelle buie streets della periferia londinese: il razzismo. Mi è chiaro il motivo per cui tra i piccoli negozi scassinati sono stati scelti per lo più quelli di conduzione musulmana. Credevo Londra una città aperta, cosmopolìta, multiculturale: forse giro troppo per il centro…
Le due ragazze decidono di prendere un taxi, io continuo a piedi. La mia sera finisce ancora una volta con lunga camminata solitaria.