di Marino Badiale
Riceviamo e pubblichiamo su proposta dell'autore.
Questo è un testo che intende proporre un lavoro comune a chi si riconosce nella sua impostazione. Coloro che lo hanno elaborato sono diversi, ma uniti nella volontà di continuare una battaglia, politica e culturale, che è iniziata con il manifesto astensionista “Questa volta no!”. Noi pensiamo che ci siano oggi le condizioni per un concreto passo in avanti. Per questo rivolgiamo a chi condivide l’impostazione di questo manifesto l’invito pressante a rompere le incrostazioni identitarie e ad imboccare con noi la via della sfida all’esistente e del superamento di quel nulla che è oggi la politica.
1. I conti tornano.
Le elezioni politiche dell’aprile 2008 segnano un momento importante nella storia del nostro paese. Si tratta della fine della sinistra in Italia. Nel Parlamento italiano uscito da quelle elezioni non è presente nessun partito che si definisca, o possa essere definito, come “sinistra”. Non si tratta di un fatto congiunturale. Naturalmente continueranno ad esistere realtà politiche, sociali, culturali che si definiranno “sinistra”, e può anche darsi che tornino ad essere presenti in Parlamento. Ma si tratterà di realtà sempre più secondarie e residuali. La fine della sinistra ha infatti una radice profonda, strettamente legata ai caratteri della fase attuale e alla natura essenziale della sinistra stessa. La sinistra è stata caratterizzata, nei due secoli della sua esistenza, dal binomio “sviluppo ed emancipazione”: è stata cioè la parte politica, sociale e culturale che ha lottato per l’emancipazione dei ceti subalterni promuovendo lo sviluppo economico e tecnologico. Questa congiunzione è stata possibile perché, fino a tempi recenti, sviluppo ed emancipazione erano compatibili. Ma la situazione è completamente cambiata negli ultimi decenni. La fase storica che, utilizzando termini imprecisi ma ormai di uso comune, viene chiamata “globalizzazione” o “neoliberismo” rappresenta, fra le altre cose, il momento in cui sviluppo ed emancipazione si separano e si contrappongono. Mentre fino a pochi decenni or sono lo sviluppo economico e tecnologico poteva davvero portare al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti subalterni, oggi sviluppo significa attacco ai redditi e ai diritti conquistati dai ceti subalterni nella fase precedente, significa attacco ai territori per le grandi opere necessarie allo sviluppo stesso, significa degrado ambientale e sociale. In questa situazione la posizione che definisce la sinistra, quella cioè di volere l’emancipazione dei ceti subalterni attraverso lo sviluppo, non è più possibile e appare come una contraddizione in termini. O si sceglie lo sviluppo, e allora, anche se ci si illude di essere progressisti o magari addirittura anticapitalisti, nella realtà si sceglie la de-emancipazione dei ceti subalterni e il degrado ambientale e sociale, oppure si sceglie l’emancipazione dei ceti subalterni, e in tal caso occorre combattere lo sviluppo fine a se stesso.
Questo carattere contraddittorio della nozione stessa di sinistra, nella fase attuale, ha potuto essere rimosso per qualche tempo. Lo strumento della rimozione è stato, per lunghi anni, l’antiberlusconismo ossessivo. Incapaci di dare un senso all’esistenza delle proprie organizzazioni, che non fosse l’attaccamento personale al potere e ai suoi vantaggi, i ceti dirigenti della sinistra italiana hanno posto il rifiuto di Berlusconi come unico contenuto e collante della propria parte politica. Ma nel momento in cui il Partito Democratico di Veltroni ha scelto di presentarsi da solo alle elezioni, l’antiberlusconismo ha funzionato contro la sinistra (cioè la sinistra arcobaleno). Se per anni si ripete che la cosa fondamentale, alla quale tutto il resto va subordinato, è impedire l’accesso al potere di Berlusconi, se in nome di questo si sacrifica ogni contenuto reale della propria politica, è chiaro che i partiti di sinistra finiscono per perdere il proprio elettorato: nella situazione in cui ci si è trovati alle politiche del 2008, chi era legato ai contenuti reali di una politica di sinistra si è astenuto (o ha espresso un ininfluente voto per piccole formazioni di estrema sinistra) perché ha capito che tali contenuti verranno sempre e comunque sacrificati alla necessità delle alleanze antiberlusconiane, mentre chi ha davvero introiettato la necessità di combattere Berlusconi come fine principale della politica ha votato PD.
Questa scomparsa della sinistra non ci addolora. Essa sgombra il campo dagli equivoci, fa chiarezza, e la chiarezza è sempre benvenuta. La realtà ha fatto tornare i conti, cancellando dalla storia una impostazione storica e politica ormai priva di fondamenti. Non si tratta ora di ricostruire una nuova sinistra (o una caricatura di partito comunista), che sarà finalmente quella buona, quella giusta, quella vera. Si tratta invece di capire come sia possibile far vivere gli ideali di emancipazione, giustizia, solidarietà (o, se si preferisce, i classici ideali di libertà, uguaglianza, fraternità), in una situazione in cui non è più possibile la lotta politica come l’abbiamo conosciuta finora.
2. La Casta, arma del nemico.
L’attuale sistema sociale ed economico rappresenta la negazione degli ideali di emancipazione, giustizia, solidarietà. Ben più di questo, esso mostra in profondità tratti distruttivi e mortiferi, che ne fanno il nemico dell’umanità. La difesa degli ideali di emancipazione, giustizia, solidarietà, può essere pensata solo come contrasto e opposizione radicale al capitalismo contemporaneo. L’unica politica realistica è oggi una politica di opposizione guidata da principi alternativi a quelli dominanti, una politica che porti a spezzare, dove è possibile, la logica che regge l’attuale sistema socioeconomico, e affronti le situazioni inedite che così si creeranno seguendo i propri principi alternativi, indirizzando la società lungo vie che oggi non è possibile prevedere. Ma per iniziare anche solo a pensare ad una tale politica, occorre riflettere sulle caratteristiche più significative della realtà attuale. E occorre, come diceva Fortini, scrivere i nomi dei nemici. Fra questi vi sono, oggi in Italia, i componenti della Casta.
Nel capitalismo contemporaneo non c’è più nessuno spazio per la politica intesa come sfera in cui si confrontano idee diverse sulla direzione da imprimere allo sviluppo sociale. Lo sviluppo sociale è comandato, in ogni ambito, dall’economia e dalle sue esigenze di profitto. A cosa si riduce allora la politica, se si accettano gli assiomi dell’attuale sistema sociale ed economico? A pura e semplice amministrazione dell’esistente, a competizione fra cordate di amministratori, il cui unico ruolo, ben pagato, è quello di gestire il consenso sociale alle politiche economiche neoliberiste. Ma tali politiche comportano la distruzione di tutte le conquiste (crescita effettiva dei salari, Welfare State) ottenute dai ceti popolari nella fase riformistico-socialdemocratica della storia del mondo occidentale, la fase del secondo dopoguerra. La perdita di diritti e redditi, il peggioramento lento e costante della qualità della vita nei paesi occidentali prosegue a ritmo costante qualunque sia il colore della parte politica al governo. Far accettare questa situazione di lento depauperamento, rendere impossibile la protesta o incanalarla in direzioni che non mettano in questione i dati fondamentali dell’attuale sistema economico e sociale: è questo il ruolo del ceto politico, indifferentemente di destra, di sinistra o di centro.
Poiché le contrapposizioni interne al ceto politico non hanno più nessuno spessore politico o ideologico, e sono semplici scontri sulla distribuzione di posti e prebende fra gang contrapposte, è corretta la caratterizzazione del ceto politico come Casta.
La Casta è al servizio della dinamica distruttiva del mondo attuale, e va combattuta come nemica della civiltà e della società. Il fatto che essa non decida nulla per quanto riguarda gli aspetti fondamentali della dinamica sociale non significa che essa sia irrilevante: è un’articolazione fondamentale dell’attuale sistema sociale ed economico, è l’ingranaggio che deve conquistare il consenso di masse sempre più impoverite sia sul piano materiale sia su quello culturale.
E’ chiaro, lo diciamo per sgombrare il campo da possibili equivoci, che la lotta contro la Casta non è di per sé lotta contro i fondamenti dell’attuale sistema socioeconomico, non è di per sé lotta rivoluzionaria. Ma in ogni situazione di lotta contro un potere dominante, si può lottare solo contro quelle articolazioni del potere che il potere stesso ci contrappone. La lotta dei vietnamiti contro l’esercito USA non andava a colpire il cuore del capitalismo USA (e infatti i vietnamiti hanno vinto ma il capitalismo USA è vivo e vegeto), ma questo non era certo un buon motivo per non farla. Oggi in Italia occorre lottare contro la Casta perché è la Casta l’arma delle oligarchie per l’attacco ad ogni possibilità di emancipazione della classi subalterne.
Esiste uno spazio sociale nel quale agire questa lotta contro la Casta? Esso esiste, a nostro avviso, e si manifesta oggi come rifiuto generalizzato della Casta, che la Casta stessa denomina “antipolitica” (denominazione ovviamente menzognera come tutto quanto proviene dalla Casta: è la Casta a negare la politica, a rappresentare la vera antipolitica). Ma su quali punti si può tentare di mobilitare questo diffuso rifiuto della Casta politica, per far sì che esso esca dalla fase della rabbia silenziosa ed impotente?
3. Assi di riferimento.
Un primo punto è quello della difesa dei territori da progetti invasivi, e quindi il sostegno a tutti quei movimenti (NO TAV, NO ponte sullo stretto, NO rigassificatori ecc.) che nascono in opposizione a progetti economici invasivi e devastanti per gli equilibri del territorio stesso. Questa invasività e queste devastazioni sono inevitabili, all’interno dell’odierno meccanismo dello sviluppo. Infatti lo sviluppo non può fare a meno dell’accumulazione di realtà fisiche sul territorio (strutture produttive, infrastrutture edilizie come autostrade e aeroporti, strutture commerciali, mezzi di trasporto, rifiuti che occorre smaltire in qualche modo). Ma il territorio italiano è saturo (altrove la situazione può essere diversa): l’Italia è un paese piccolo e sovrappopolato, il cui territorio è stato da tempo invaso dalle realtà fisiche legate allo sviluppo. Non essendoci più spazio libero, le nuove strutture fisiche necessarie per lo sviluppo possono inserirsi solo in una realtà fisica e sociale già organizzata, mettendone in crisi gli equilibri. In parole povere, le nuove strutture devono invadere la vita quotidiana degli abitanti del territorio, sconvolgendola. L’opposizione da parte degli abitanti del territorio attaccato è dunque naturale e istintiva, non necessariamente derivante da opzioni politiche e ideologiche generali, ma, questo è il punto cruciale, essa va nella direzione della critica dello sviluppo, anche se i suoi attori possono non averne coscienza. Con questo intendiamo dire che la prospettiva della critica dello sviluppo è l’unica che renda coerenti queste lotte, dando ad esse un valore e una prospettiva generali. Al di fuori di tale prospettiva, queste lotte possono essere facilmente criticate e isolate indicandole come espressione di egoismi locali che devono cedere il passo all’interesse generale. La risposta a questa critica sta appunto nell’indicare il rifiuto dello sviluppo, cioè la decrescita, come interesse generale del paese. La nozione di decrescita è quindi uno degli assi fondamentali attorno ai quali sviluppare la lotta contro l’esistente. Con tale nozione si intende il rifiuto dello sviluppo inteso come aumento del Prodotto Interno Lordo, e la proposta di una sua progressiva diminuzione. Ciò coincide, per la definizione stessa di Prodotto Interno Lordo, con la proposta della progressiva diminuzione dell’offerta di beni sotto forma di merci (la merce è il bene prodotto per il mercato, in vista di un profitto monetario e dotato quindi di un prezzo), e dell’espansione dell’offerta di beni non in forma di merci. La proposta della decrescita non implica necessariamente la diminuzione dell’offerta di beni, ma nelle condizioni attuali è possibile e sensata solo assieme ad una profonda riforma intellettuale e morale che porti a scelte di vita contrassegnate da sobrietà e rifiuto del consumismo.
Una forza politica che intenda opporsi alla dinamica mortifera del capitalismo contemporaneo deve assumere la decrescita come asse fondamentale della propria azione. Si tratta di una scelta cruciale per ricollegarsi alle tante realtà di lotta che stanno sorgendo in Italia e che si diffonderanno sempre di più.
Un secondo punto si collega a un altro dato profondo della realtà contemporanea, cioè il progetto di dominio globale del pianeta, e in particolare delle zone rilevanti per il controllo delle risorse, progetto che gli USA hanno iniziato a mettere in atto a partire dagli ultimi anni dell’amministrazione Clinton, e in maniera evidente a tutti dopo l’11 settembre. Un simile progetto di dominio inevitabilmente genera resistenze, che vanno sostenute in quanto esse, nonostante provengano spesso da mondi culturali lontani da noi, fanno vivere alcuni principi fondamentali di civiltà, come il diritto dei popoli all’autodeterminazione e il rifiuto della guerra di aggressione.
Nei paesi occidentali il progetto Usa di dominio globale del pianeta comporta, per le necessità della repressione delle resistenze, la messa in mora della rete di diritti e garanzie che la civiltà borghese aveva elaborato come diritti del cittadino, per esempio l’habeas corpus o il diritto ad un giusto processo. Sono tutti aspetti della civiltà giuridica borghese che la misure legislative adottate negli USA dopo l’11 settembre (dal “Patriot Act” in poi) hanno cominciato ad attaccare e indebolire. Analoghi fenomeni stanno avanzando negli altri paesi occidentali (si pensi alle “extraordinary renditions”). Non si tratta di una tendenza momentanea destinata a rientrare, ma di un aspetto profondo e fondamentale della realtà attuale. Se è così, allora una linea di resistenza è rappresentata dalla difesa dello Stato di diritto.
Un altro aspetto decisivo del capitalismo contemporaneo è l’ossessiva ricerca del profitto senza limiti e a breve e brevissimo termine. Questo non è possibile rimanendo nell’ambito della legge (della stessa legge borghese!): di qui il carattere criminale di una parte sempre più grande dell’economia capitalistica contemporanea. Criminale nel senso di essere legata a pratiche di truffa e di corruzione, e nel senso di lasciare uno spazio crescente all’economia delle grandi organizzazioni criminali, che si confonde sempre di più con quella “legale”. Gli esempi sono innumerevoli. Basti pensare ai collegamenti che si devono instaurare fra imprese industriali del nord e camorra per lo smaltimento illegale dei rifiuti, secondo le denuncie dell’ormai famoso “Gomorra” di Roberto Saviano. Basti pensare a come il commercio delle armi porti necessariamente ad analoghi collegamenti, visto che le armi iniziano con l’essere prodotte legalmente da rispettabili industrie e finiscono poi in mano a criminalità e gruppi armati di vario tipo. Basti pensare a quali devono essere i legami che rendono possibili la “ripulitura” dell’immenso fiume di denaro sporco prodotto da attività come appunto il commercio di armi o la droga, e a come questo fiume di denaro accresca, in questi tempi di capitalismo finanziario, il potere di chi, nel mondo dell’economia “ufficiale”, riesce a sfruttarlo. E si potrebbe continuare notando come la corruzione sia ormai un aspetto strutturale dell’economia contemporanea. Tutto ciò implica che i ceti dominanti nel mondo contemporaneo hanno sempre più bisogno di disattivare il controllo di legalità sui grandi crimini economici. Anche in questo caso, dunque, la richiesta di difendere lo Stato di diritto ha un carattere di resistenza e ostacolo al dispiegamento della logica dell’attuale sistema sociale ed economico.
E’ probabile che all’analisi appena svolta venga mossa, specie da persone di formazione marxista, l’obiezione che nei caratteri da noi sottolineati non c’è nulla di nuovo. I ceti dominanti dei paesi occidentali avanzati, si dirà, hanno sempre sospeso i diritti individuali quando si trattava di reprimere movimenti che li attaccassero seriamente, e hanno sempre intrallazzato ai limiti della legalità, o anche oltre tali limiti, quando questo appariva possibile e conveniente. Questa obiezione manifesta secondo noi una profonda incomprensione della realtà attuale. Il pensiero che la ispira appare analogo a quello di chi affermi che, poiché da che mondo è mondo gli esseri umani hanno sempre usato strumenti omicidi per farsi la guerra, e hanno sempre cercato di inventare l’arma migliore e più efficace, allora l’invenzione della bomba atomica non cambia nulla di sostanziale, perché si tratta in fondo pur sempre dell’invenzione di un’altra arma. Allo stesso modo, è verissimo che i caratteri di crisi della legalità, che noi abbiamo individuato nella fase attuale, si possono ritrovare in fasi precedenti delle società capitalistiche, ed è pure vero che gli aspetti fondamentali del rapporto sociale capitalistico sono sempre gli stessi, ma le dimensioni in cui si presentano oggi quei caratteri ne fanno qualcosa di inedito che inaugura appunto una fase nuova. Oggi la sospensione dei diritti individuali non è una risposta estrema ad una crisi imminente o in atto, ma si pone esplicitamente come dato permanente delle nostre società, senza che al loro interno si levino movimenti di protesta. La simbiosi fra economia legale ed economia illegale non è un dato episodico o legato a situazioni locali, ma è diventata la normale modalità di funzionamento dell’economia contemporanea.
Possiamo concludere che una forza politica che voglia contrastare la folle e distruttiva direzione di marcia della nostra società dovrebbe, oggi in Italia, scegliere come assi di riferimento la difesa del territorio e la difesa dello Stato di diritto. A questi assi di riferimento non sarebbe poi difficile collegare la difesa complessiva dei diritti conquistati dai ceti subalterni nella fase “socialdemocratica” del capitalismo del secondo dopoguerra.
La tesi che vogliamo affermare con forza a questo punto è che il miglior quadro possibile in cui inquadrare questo indirizzi è, in Italia, quello rappresentato dai valori e dai principi che sono stati sintetizzati nella nostra Costituzione.
4. Perché la Costituzione.
La Costituzione della Repubblica italiana, formalmente (ma soltanto formalmente) tuttora in vigore, è nata come alto compromesso tra le tre grandi forze ideali, culturali e politiche che avevano alimentato la lotta antifascista, vale a dire quella laico-risorgimentale (rappresentata dai partiti liberale, repubblicano e d’azione), quella marxista (rappresentata dai partiti socialista e comunista), e quella cattolica (rappresentata dalla democrazia cristiana). Il terreno del compromesso è stato, trattandosi di una Costituzione, quello istituzionale, nel senso che aspirazioni laiche, cattoliche e marxiste dovevano trovare una espressione curvata sul piano giuridico ed una reciproca limitazione nelle norme regolatrici delle nuove istituzioni statuali che dovevano venire edificate.
Il compromesso allora perseguito nell’Assemblea costituente risultò alla fine, quando un lungo e schietto applauso quasi generale sottolineò l’approvazione della carta costituzionale il 22 dicembre 1947, riuscito sul piano dei principi ed avanzato sul piano sociale e culturale.
La riuscita del compromesso istituzionale sul piano dei principi risulta evidente da una semplice lettura degli articoli della carta, i cui principi da un lato lasciano trasparire una specifica genesi ideale (ad esempio, liberale per l’articolo 13, cattolica per l’articolo 29, marxista per l’articolo 43), ma dall’altro sono incorporati in prescrizioni normative non ascrivibili univocamente ad un determinato indirizzo ideologico e politico, ed accettabili da diverse angolazioni sulla base di pure ragioni di giustizia.
La natura storicamente avanzata del compromesso costituzionale appare chiara dalla contestualizzazione della Costituzione della Repubblica italiana nel suo tempo storico. Essa entra in vigore il 1° gennaio 1948, sette mesi dopo la fine dei governi di unità nazionale con l’estromissione totale dei comunisti e dei socialisti, tre mesi e mezzo prima della disfatta elettorale del Fronte popolare, e nell’ambito di un periodo di controffensiva padronale nelle fabbriche che inchioda la classe operaia ad un duro sfruttamento e allarga grandemente la disoccupazione al suo interno. In questo contesto storico una carta costituzionale che esige, oltre all’eguaglianza formale di fronte alla legge, anche elementi di eguaglianza sostanziale, che vieta l’iniziativa economica privata quando sia in contrasto con l’utilità sociale, che prevede numerosi casi di possibile statalizzazione delle attività economiche, esprimeva statuizioni più avanzate dei rapporti di forza allora esistenti, tanto è vero che rimase fin dall’inizio in larga misura inattuata. Per fare un altro esempio, si pensi a come il partito dei cattolici, conquistata nel 1948 la maggioranza assoluta in Parlamento, si sia trovato di fronte al limite di articoli costituzionali che prevedono la scuola pubblica in ogni ordine e grado, il divieto di finanziamenti statali delle scuole private, la tutela dei figli nati fuori dal matrimonio.
Se il compromesso costituzionale era nel 1948 più avanzato della situazione sociale, politica e culturale coeva, oggi è a un livello semplicemente incommensurabile, in termini di civiltà, di giustizia, di tutela della persona, rispetto a quello in cui si colloca il concreto esercizio dei poteri dello Stato e dell’economia, al punto che, nel contesto dell’attuale organizzazione sociale ed economica e delle miserabili caste partitiche che la servono, l’attuazione della carta costituzionale configurerebbe una vera e propria rivoluzione economica, sociale e politica. L’incapacità di capire questo punto decisivo è indice di profondi limiti da parte delle realtà politiche e culturali (oggi disperse e minoritarie) che vogliono opporsi alla dinamica distruttiva del mondo contemporaneo. Come si potrebbe altrimenti rinunciare a presidiare una trincea così avanzata come quella della carta costituzionale? Certo, occorrerebbe farlo senza minimamente confondersi con quei difensori della Costituzione che, insistendo solo sui principi di funzionamento ed equilibrio dei poteri dello Stato conformi alle norme della seconda parte del documento, tralasciano il rispetto dei principi della prima parte. In questo modo la pretesa difesa della Costituzione si riduce ad una intransigenza antiberlusconiana piuttosto grottesca, quando si coniuga, ad esempio, con il supporto, o comunque la non opposizione, alla partecipazione alla guerra infinita statunitense e alla spesa militare per sistemi d’arma di chiara valenza offensiva, in spregio all’articolo 11 della carta. Certo, occorre non coltivare illusioni giuridiciste: oggi non servono, alla difesa della Costituzione, le cosiddette istituzioni di garanzia, come la Corte costituzionale, la commissione affari costituzionali del parlamento, la Presidenza della Repubblica. La partita non si gioca sul terreno giuridico, dato che chi dovrebbe garantire su quel terreno è interno a quelle stesse oligarchie partitocratiche che hanno manomesso la Costituzione.
Quel che servirebbe sarebbe incoraggiare e promuovere lotte in difesa dei diritti del lavoro (contro il precariato, la sottoretribuzione, gli orari eccessivi, i sistemi di appalto), in difesa della vivibilità del territorio (contro le cementificazioni speculative, le opere dissestanti, le emissioni avvelenatrici, la valanga dei rifiuti), per la demercificazione dell’economia (con più beni conviviali e locali, meno consumo di merci e di energia, e quindi meno produzione di rifiuti), per la definanziarizzazione dell’economia (contro lo strapotere di banche e società speculative), per un più rapido esito dei processi penali e civili (senza barriere di accessibilità e di costo per i soggetti socialmente deboli), contro mafie e corruzioni, inscrivendo tutti questi obiettivi nell’attuazione della nostra Costituzione.
I vantaggi di una simile impostazione sarebbero molteplici e rilevanti: 1) proporre obiettivi di giustizia sociale e di salvaguardia ambientale sotto forma di principi costituzionali da attuare sottrarrebbe tali obiettivi alle definizioni e agli schieramenti correlati allo spettro politico esistente ed a cascami di ideologie oggi vuote di contenuti, rendendoli maggiormente capaci di saldarsi alle ragioni effettive di malcontento, a esperienze vive di lotta, al rifiuto della Casta che serpeggia nel paese. 2) La carta costituzionale è, sia pure soltanto formalmente, legge dello Stato, anzi legge fondamentale dello Stato, cui tutta la legislazione ordinaria sarebbe tenuta a conformarsi. Ovviamente ciò non è in alcun modo determinante, ma altrettanto ovviamente chi lotta per obiettivi prescritti da una legge almeno formalmente in vigore è meno svantaggiato di chi lotta per obiettivi preclusi dalla legge. 3) I principi costituzionali sono talmente avanzati rispetto allo stato attuale dei rapporti di forza fra le classi ed al livello culturale delle masse in via di impoverimento, e così contrari alla logica di funzionamento della società contemporanea, che la loro prassi attuativa sarebbe insieme legalitaria e rivoluzionaria. Basti pensare a come, basandosi sulla Costituzione, sia possibile rivendicare il diritto di ogni cittadino al lavoro retribuito, da parte dello Stato se i privati e il loro “mercato” mantengono la disoccupazione (articolo 4), oppure la tutela da parte dello Stato della salute non di ogni cittadino, ma di ogni individuo umano, (articolo 32), oppure il diritto di ogni lavoratore ad una retribuzione che gli assicuri un’esistenza libera e dignitosa (articolo 36), o la piena parità di trattamento del lavoratore e della lavoratrice (articolo 37), o la soppressione dell’iniziativa economica privata là dove essa leda o la sicurezza o la dignità del lavoratore (articolo 41). E si potrebbero fare altri esempi.
Quale dovrebbe essere il modo concreto di utilizzare le potenzialità insite nella nostra Costituzione? Non si tratta, a nostro avviso, di creare una associazione per la difesa della Costituzione o dello Stato di diritto. Questo per due motivi. Il primo è che si difende qualcosa che più o meno è presente e sotto attacco, mentre la Casta ha ormai completato l’opera di svuotamento della Costituzione, per quanto essa resti formalmente vigente. E’ ben noto che la Costituzione è rimasta largamente disapplicata fin dall’inizio, specie per quanto riguarda i suoi aspetti più avanzati sul piano sociale. Negli ultimi decenni questo processo di esautoramento sostanziale è arrivato a compimento: basti pensare a come l’Italia venga ormai normalmente coinvolta in teatri di guerra, in spregio all’articolo 11, o a come vengano stravolti perfino gli aspetti di equilibrio istituzionale, per esempio esautorando il potere del Presidente della Repubblica di scegliere la persona alla quale affidare l’incarico per la formazione del governo . Oppure basti pensare a come, nei decenni del dopoguerra, l’obiettivo della piena occupazione (che, senza essere esplicitamente inserito nel testo costituzionale, è chiaramente sottinteso negli articoli che riguardano il tema del lavoro) sia stato effettivamente uno degli obiettivi dell’azione di governo, e come invece oggi la disoccupazione, al di là di esercizi retorici, sia nella sostanza accettata come un dato di fatto.
Il secondo motivo è che una “associazione per la difesa di” ha senso quando si parla di questioni in qualche modo settoriali, mentre i principi che hanno ispirato la Costituzione hanno oggi un valore generale.
Quello che ci sembra necessario oggi non è dunque una “associazione per la Costituzione”, ma un movimento politico che si ispiri ai principi della Costituzione e ne sappia trarre un programma politico. Gli articoli della prima parte della Costituzione non sono un tale programma, ma i principi che li ispirano possono fornire i valori e stabilire i vincoli di un programma politico.
4. Prima che sia troppo tardi.
Il nostro paese sta attraversando una crisi gravissima. Non si tratta solo del declino dell’economia ma del degrado sociale, del predominio della criminalità, del peggioramento di ogni aspetto della vita sociale. Questo degrado è una conseguenza dei meccanismi distruttivi dell’attuale organizzazione economica e sociale, che va quindi combattuta da chi si ispiri a ideali di giustizia, emancipazione e solidarietà. Il principale nemico contro cui combattere è, oggi in Italia, la Casta politica. La lotta contro la Casta e, dietro essa, contro l’attuale sistema economico e sociale, può essere fatta con qualche speranza di successo da un movimento politico che abbandoni ogni richiamo a ideologie ormai prive di agganci con la realtà e che si ispiri invece ai principi e ai valori della nostra carta costituzionale. Solo in questo modo c’è almeno la speranza di uscire dalla sterile contrapposizione fra estremismo ultraminoritario e accettazione dell’esistente, e di incontrare le esigenze e le speranze dei tanti che vivono il degrado sulla propria pelle, con rabbia e angoscia impotente. Non c’è molto tempo. L’acuirsi del degrado porterà necessariamente alla crescita del malessere. Se le forze che si ispirano a giustizia, solidarietà, emancipazione non riescono a dare uno sbocco a questo malessere, possiamo ipotizzare una crisi dagli esiti imprevedibili nei particolari, ma complessivamente negativi. I casi dell’Argentina e della Jugoslavia ci ricordano ciò che può succedere a paesi grandi e apparentemente solidi. Alla fine di “Underground”, lo struggente film che Kusturica ha dedicato alla storia della Jugoslavia e alla sua dissoluzione, una voce fuori campo ripete la frase “io avevo un paese”. Parla della Jugoslavia. Non vogliamo dover ripetere la stessa frase, fra qualche anno, per l’Italia. E’ l’unico paese che abbiamo.